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Quello che non vi ho mai detto


Nella mia testa la casa è un bosco.


Mio padre è un albero dritto che non piega mai il tronco.

Mia madre è un salice stanco che si muove anche quando l’aria è ferma.

Io sono un ramo storto, cresciuto all’ombra che cerca il sole ma ha paura di trovarlo.


Viviamo vicini, ma non ci tocchiamo mai.

Come quelle chiome degli alberi che lasciano spazio tra loro.

Canopia, l’ho letto una volta a scuola.

Mi è rimasto impresso.

Un modo gentile di dire: “ci sono, ma non ti invado”.


Ecco, io avrei voluto solo questo.

Essere visto, non invaso.

Ascoltato, senza dovermi spiegare.

Amato, anche quando non ero come volevate.


Mio padre pensa che io sia un mistero.

Mi guarda come si guarda qualcosa che non si capisce, e allora si ignora.

Dice: “A scuola com’è andata?”, ma senza aspettare la risposta.

Poi si rifugia dietro un giornale o uno schermo.

Io, dietro una porta chiusa.


Mia madre è gentile, troppo.

Fa domande leggere, sorride anche quando non ne ha voglia.

Mi lascia i vestiti lavati sul letto, i biscotti preferiti sul tavolo.

Ma non sa più dove posare lo sguardo, anche quando mi incontra negli occhi.


Io sto zitto.

Sempre più spesso.

Perché ogni parola che provo a dire sembra sbagliata in partenza.

O troppo. O inutile.

Allora me le tengo dentro, le parole. E loro scoppiano piano.

Non fanno rumore.

Ma fanno male.


Ho amici con cui ridere forte e spaccare tutto, se serve.

Non perché ci piaccia distruggere.

Ma perché è l’unico modo per sentirci reali.

A volte abbiamo bisogno di fare casino solo per sentirci vivi.


Voi ci chiamate “brutta compagnia”, “maranza”.

Ma sapeste che silenzio ci portiamo addosso.


Una volta, ero in giardino.

Faceva sera. Il cielo si stringeva attorno agli alberi.

Li ho guardati a lungo.

Non si toccavano. Mai.

Ma stavano lì. Insieme.


E allora ho pensato:

Forse anche noi potremmo essere così.

Vicini, ma liberi.

Presenti, ma leggeri.

Non chiedervi di capirmi. Solo… di esserci.


Forse dovrei dirtelo papà, che non mi serve un eroe.

Mi basterebbe un padre che sbaglia, che ha paura ma che me lo dice.

Che mi guarda come uno che ha gli stessi dubbi.

E non come un estraneo da correggere.


E a te, mamma, dovrei dire che ti voglio bene anche quando mi chiudo.

Che quel silenzio non è un muro, è solo una coperta troppo pesante da togliere.

Che se mi lasci il latte caldo sul tavolo, io lo bevo. Anche se non ti chiedo il miele.


Forse siamo come alberi cresciuti troppo vicini.

Abbiamo imparato a starci accanto senza soffocarci.

Ma non ci siamo mai detti che, tra le nostre chiome,

può passare la luce.


La luce che serve per capirsi.

La luce che serve per perdonarsi.

La luce che serve per crescere.


Questo è quello che non vi ho mai detto.

E che forse un giorno, tra le foglie, capirete da soli.



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